Nella cultura Occidentale il trionfo della “terapeutica” spesso ha fatto si che confondesse la meditazione con la psicoterapia.

Con il trapianto in Occidente, la meditazione è stata tolta dal suo più ampio contesto culturale permeato dalle prospettive e dai valori del Buddhismo dov’è parte di un sistema di addestramento totale e di un certo stile di vita.

Tutto ciò, negli ultimi anni, ha aperto discussioni rispetto ai rischi della pratica meditativa se utilizzata su determinate strutture di personalità e soprattutto se sostituita alla psicoterapia.

In molti allievi, di corsi di meditazione, si nota una particolare vulnerabilità del senso di identità e del sé; queste persone sembrano attratte dalle pratiche meditative come scorciatoia per la soluzione dei compiti dello sviluppo del ciclo vitale.

L’insegnamento buddhista secondo il quale non si ha e non si è un “sé”durevole viene spesso frainteso nel senso che non si deve lottare con i compiti di formazione dell’identità o con la scoperta di chi si è, delle proprie capacità, dei propri bisogni, delle proprie responsabilità; la dottrina dell’anatta (assenza del sé) è presa a pretesto per il prematuro abbandono dei compiti psicosociali essenziali.
Con tutta la cautela necessaria in assenza di una formale valutazione clinica il sospetto è quello che la funzionalità di molti di queste persone si trovi, o si avvicini, ad un livello “borderline” dell’organizzazione dell’io.
Il carattere principale di quest’organizzazione di personalità borderline, secondo alcune scuole di pensiero, è la dispersione dell’identità. In queste persone l’integrazione fallisce.
I deficit nella formazione di rappresentazioni complete del Sé e dell’oggetto portano ad una conseguente mancanza di un senso del Sé coesivo e integrato.
L’insegnamento del “non attaccamento”, centrale nel Buddhismo, è ascoltato come una razionalizzazione della incapacità, di questi individui, a formare rapporti stabili, durevoli e soddisfacenti.
Il buddhismo sembra avere due straordinarie attrazioni: la prima è lo stesso ideale “dell’illuminazione” considerato l’acme della perfezione individuale, uno stato purificato di completa e invulnerabile autosufficienza dal quale è stata espulsa ogni cattiveria; perfezione potrebbe anche significare, inconsciamente, libertà dai sintomi in modo da essere superiori agli altri.
La seconda attrazione è la possibilità di stabilire un transfert narcisistico, di tipo rispecchiante o idealizzante, con maestri spirituali che sono percepiti come esseri di particolare valore, potenti e degni di ammirazione.
Da ciò se ne potrebbe dedurre che alcune particolari difficoltà che certi allievi incontrano nella pratica della meditazione vadano cercate nel livello di organizzazione della personalità, ancora meglio nei deficit della formazione di rappresentazioni complete del Sé e dell’oggetto, oltre che nella conseguente mancanza di un senso del Sé coesivo e integrato.

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