Un sano sviluppo della personalità dipende sia dall’adeguato sviluppo della sfera cognitiva, affettiva e sociale, sia dalle interazioni che la persona stabilisce con l’ambiente esterno nel corso della sua evoluzione. Studiare lo sviluppo affettivo significa analizzare il tipo di rapporti che il soggetto instaura con l’ambiente e le caratteristiche individuali, evidenziando i fattori che influenzano l’evoluzione.
Aspetti di ordine ambientale che condizionano la qualità delle relazioni affettive possono essere:
il comportamento dei genitori, in modo specifico quello della madre nei primi anni di vita;
- l’atteggiamento di accettazione o di rifiuto dell’ambiente;
- la possibilità di sperimentare esperienze sociali positive.
Particolarmente importante è la relazione madre-figlio, infatti la madre offre la prima relazione oggettuale del bambino, sull’esperienza della quale egli costruirà le successive relazioni interpersonali. Se questo rapporto manca o viene significativamente alterato precocemente, nel bambino si genereranno, dal punto di vista emozionale, stati carenziali che influenzeranno negativamente e spesso irreversibilmente, il suo sviluppo psicofisico.
In relazione allo sviluppo affettivo del bambino diverse sono le recenti impostazioni teoriche e diverso è il ruolo attribuito al bambino nella costruzione del suo mondo affettivo ed emotivo. Riprendendo lo schema proposto da Riegel che ha sistematizzato i modelli di sviluppo in quattro categorie che riflettono diverse combinazioni di persone e ambienti attivi e passivi, schematizzando possiamo dire che da un lato si collocano le teorie che vedono il bambino attivo nel recepire i segnali ambientali e rispondere in modo adeguato a questi, dall’altro i modelli che vogliono il bambino attivo nel proporre lui stesso, precocemente, comunicazioni emotivamente rilevanti al caregiver.
Freud riteneva che la relazione primaria che il bambino instaurava con la figura materna fosse essenzialmente determinata dalla necessità di soddisfare un bisogno di essere nutrito, e solo secondariamente, di avere qualcuno con cui stabilire una relazione affettiva. Successivamente, da Freud stesso, ma soprattutto dalla Klein l’accento venne spostato sul rapporto con l’oggetto e sull’angoscia che il bambino prova come paura di perderlo, ma anche questo tipo di attaccamento è secondario all’egoismo primario del bambino di perdere la fonte del soddisfacimento delle pulsioni. Sono gli etologi con i loro studi sul comportamento animale, sulle osservazioni sugli orfani di guerra e sui bambini che precocemente avevano perduto la madre che indussero a considerare il legame di attaccamento come l’oggetto d’amore privilegiato come primario, rispetto a tutti gli altri bisogni del piccolo. Anche Spitz si accorse che negli orfanotrofi i bambini cadevano in uno stato di grave depressione benché fossero nutriti adeguatamente: scoprì che queste sofferenze erano causate dal fatto che venivano lasciati per molto tempo da soli nelle culle in compagnia di un biberon che erogava latte a scadenze prestabilite. Il capostipite e portavoce delle teorie dell’attaccamento è Bowlby che, sebbene inizialmente di formazione psicodinamica, dissentì profondamente dall’impostazione della Klein per la scarsa importanza che quest’ultima attribuiva ai fattori ambientali nello sviluppo della personalità. Secondo Bowlby le teorie pulsionali e quelle delle relazioni oggettuali erano insufficienti per spiegare il complesso legame di attaccamento fra madre e bambino. L’influenza di Lorenz e Tinbergen sono evidenti nella teoria dell’attaccamento che condivide l’idea che l’attaccamento è un sistema motivazionali primario che interagisce con altri sistemi motivazionali. L’angoscia manifestata dagli animali separati dalla madre ed il loro bisogno di mantenersi in costante contatto con lei sollecitano Bowlby ad estendere il concetto anche ai bambini.
I risultati degli studi di Harlow sulle scimmie Rhesus, comparsi nel 1958, sono contemporanei ai lavori di Bowlby e si accordano perfettamente con la sua tesi. Harlow aveva infatti separato delle scimmiette dalla madre e le aveva chiuse in gabbia con due sostituti materni: uno di peluche, caldo e morbido che non forniva latte e l’altra freddo, metallico, ma che erogava latte. Le scimmiette dimostrarono di preferire il surrogato di madre caldo quando si sentivano in pericolo e ricorrevano alla madre metallica limitatamente al soddisfacimento dei bisogni nutritivi. Viene così dimostrato che la necessità di contatto è primaria e indipendente rispetto a quella del soddisfacimento dei bisogni fisiologici, mettendo in luce come il meccanismo della formazione del legame di attaccamento non possa essere considerato un semplice effetto di associazione con la figura che fornisce cibo.
Bowlby sostiene che lo stesso principio vale anche per i cuccioli degli esseri umani e integra il suo lavoro clinico sui bambini deprivati delle cure affettive materne. Si può così parlare di attaccamento, di comportamenti di attaccamento e sistema di comportamenti di attaccamento. Attaccamento è un termine generico che si riferisce allo stato di un soggetto verso un oggetto. Da adulti possiamo sviluppare un attaccamento sicuro, oppure un attaccamento insicuro a seconda delle primarie relazioni avute con la madre: avremo un attaccamento sicuro se ci siamo sentiti protetti e, pur provando gioia al contatto con l’oggetto amato, possiamo anche separarcene senza troppa angoscia in quanto consapevoli di poterlo ritrovare; svilupperemo un attaccamento insicuro nel caso che l’immensa paura di perdere l’oggetto amato contribuisca a farci diventare dipendenti dall’oggetto e aggressivi.
I comportamenti di attaccamento sono tutte quelle manifestazioni che portano il soggetto a ricercare il contatto con l’oggetto, come l’aggrapparsi, il cercarne lo sguardo ed il contatto fisico oppure quelli che mostrano il disappunto, la paura o l’angoscia se l’oggetto viene a mancare. Il sistema di comportamenti di attaccamento è una costruzione globale che include sia la rappresentazione del mondo e degli altri sia di se stessi: il soggetto può pensarsi come una persona che è tranquilla e sicura di sé perché percepisce il mondo come ben disposto ed accogliente, oppure come una persona inadeguata perché incapace di essere amata dagli altri che diventano così desiderabili, ma irraggiungibili, scatenando rabbia e disperazione.
Secondo Bowlby l’attaccamento è monotropico cioè rivolto ad un oggetto privilegiato, generalmente la madre. Questo non esclude affatto che possano esserci altri attaccamenti secondari che si sviluppano in una costellazione gerarchica. Le caratteristiche indicative della qualità dell’attaccamento sono l’effetto “base sicura”, la ricerca di contatto e la protesta per la separazione.
Il concetto di “base sicura” è stato sviluppato dalla Ainsworth ed è molto importante perché è uno degli indicatori più attendibili per valutare se l’attaccamento è sicuro o insicuro (test strange situation). Il piccolo che può esplorare il mondo tranquillamente perché è certo di poter tornare alla base può soddisfare la sua naturale curiosità senza paura. Più il bambino cresce, più si allarga il raggio di azione e la distanza dalla figura di attaccamento. In questa esplorazione il bambino è guidato da ciò che Bowlby definisce il modello operativo interno: si tratta di una struttura cognitiva che permette di pianificare le azioni e di prendere decisioni sulla base della rappresentazione interna dei legami di attaccamento. Un bambino che abbia sviluppato un attaccamento sicuro possiede un modello operativo interno positivo attraverso il quale è molto probabile che si rappresenti tutte le relazioni nel corso della vita; un bambino con un attaccamento insicuro produrrà un modello operativo interno insicuro negativo tendente a sviluppare risposte nevrotiche alle relazioni, tali da innescare pericolosi circoli viziosi secondo il modello della “profezia che si autoavvera”. Altri indicatori sono la ricerca di contatto fisico e visivo con la madre e la protesta che accompagna il momento della separazione.
La teoria dell’attaccamento è stata sviluppata in molte direzioni sia dai clinici che dagli psicologi sociali ed ha subito anche seri critiche, ma non si può negare che abbia portato a importanti cambiamenti, non solo teorici. Ad esempio gli studi condotti dai Robertson sugli effetti dell’ospedalizzazione hanno rivoluzionato le pratiche cliniche introducendo la presenza della madre all’interno dei reparti di pediatria, così come le osservazioni sulla separazione del neonato dalla madre hanno indotto alla consuetudine del rooming-in che consiste nel lasciare la culla del piccolo nella stanza della madre, piuttosto che nella nursery.
Anche Trevarthen considera le emozioni nell’infanzia come regolatrici del controllo e delle relazioni interpersonali. Egli studia le prime forme di interazione intercorrenti tra il bambino ed i suoi partner significativi considerandole anche in rapporto sia alla conoscenza sia all’esplorazione dell’universo degli oggetti inanimati. Ha utilizzato una analisi microanalitica delle osservazioni svolte con tecniche di videoregistrazione, dell’interazione madre-bambino e di suoi partner centrate sulla condivisione di affetti e conoscenze. Nel corso del secondo/terzo mese di vita emergerebbero forme di interazione fra il neonato e la madre centrate prevalentemente sull’alternanza dei turni (turn-talking) espresse in dialoghi sociali fondati su scambi di sguardi, sorrisi e vocalizzazioni configurabili come vere e proprie protoconversazioni. Centrale in tale contesto sarebbe il gioco “faccia a faccia” intercorrente fra la madre ed il bambino, caratterizzato da forme di imitazione reciproca, riscontrabile sia nella madre che nel neonato. A questa prima forma di intersoggettività, centrata prevalentemente sullo scambio diadico, subentrerebbe una più articolata forma di intersoggettività secondaria implicante l’apertura della relazione duale madre-bambino verso un terzo polo di riferimento, costituito dal mondo degli oggetti inanimati.
La teoria di Bowlby è stata comunque oggetto di numerose critiche soprattutto dai movimenti per l’emancipazione della donna dal momento che, l’accentuazione della figura materna portò Bowlby a sostenere posizioni estreme che auspicavano il ritorno ad una società in cui le donne potessero occuparsi dell’allevamento della prole in prima persona, almeno nei primi anni di vita. Bowlby era molto critico verso qualunque forma di istituzione per la prima infanzia e riteneva che i governi dovessero sostenere economicamente le madri perché potessero non lavorare.
Un altro tipo di critica viene oggi portata al modello proposto da Bowlby dal gruppo di psicologi che sostengono il modello interazionista dello sviluppo. Fogel, Samerof ed altri sostengono che il modello dell’attaccamento propone una diade assolutamente sbilanciata ed attribuisce la responsabilità della relazione unicamente al comportamento della madre: il bambino risulta essere passivo e recepire senza possibilità di modificare il comportamento della madre. In questo modello, invece, i due componenti della diade diventano attivi entrambi e ciascuno è capace con il suo comportamento ed atteggiamento di modificare la relazione e l’ambiente circostante. Il bambino, in qualche modo, partecipa attivamente alla costruzione della relazione con la madre e la madre, da par suo, è influenza nei suoi comportamenti dalle risposte e dalle interazioni che il bambino le propone. Studi, svolti principalmente con tecniche di osservazione qualitative della relazione madre-bambino, sono stati recentemente effettuati in bambini pretermine ed in bambini nati a termine. Nei prematuri la capacità ridotta di interagire in maniera gratificante con la madre innesca un meccanismo per cui la madre interagisce in maniera meno sincronica con il bambino e minori sono i momenti di corrispondenza vocale e di ricerca di sguardi e di sorrisi. Papousĕk e Papousĕk individuano in questo comportamento disarmonico uno dei fattori di rischio per il maltrattamento infantile. Gli autori, nel proporre un modello psicobiologico per la comprensione dei fallimenti interattivi, indicano due variabili fondamentali nello studio dell’origine e delle conseguenze dei fallimenti precoci: la competenza del bambino in grado di integrare le diverse stimolazioni ambientali e un tipo di allevamento della prole da parte dei genitori definito “intuitivo”.
Se nel bambino le azioni che esprimono comunicazione emotiva sono relativamente ben differenziate e simili peraltro dal punto di vista formale a quelle dell’adulto, allora bisogna respingere l’idea che le emozioni siano definite in prima istanza da modalità verbali o attraverso pensieri e riflessioni mediati dal linguaggio.
Murray ha effettuato un esperimento molto significativo per la sua capacità di dimostrare che assai precocemente (2 mesi) il bambino è in grado di decodificare l’espressione della madre e di modificare il suo comportamento in risposta. Furono fatti esperimenti di “blank-face” in cui la madre per un minuto cambiava espressione ed assumeva un’espressione priva di emozioni, pur continuando a guardare tranquillamente il bambino. Dal comportamento del bambino era possibile dedurre che questi decifrava l’ambiguità dell’espressione materna e reagiva con espressioni facciali di preoccupazione e di ansia. Anche la mancanza di sincronia delle risposte materne alle vacalizzazioni ed espressioni del bambino risultavano per quest’ultimo particolarmente disturbanti, così come i bambini di madri depresse, apparentemente normali, erano già a 2 mesi evitanti ed angosciati, rispetto a bambini con madri sane.
In ultimo proproniamo un modello evolutivo che ha cercato di collegare in un quadro teorico unico e non contraddittorio la teoria psicoanalitica degli affetti con i dati forniti dagli studi interattivo-cognitivisti. Emde e Bushsbaum hanno studiato gli affetti concepiti come segnali dell’Io di tipo adattivo, cioè come strutture stabili a livello intrapsichico, in grado di guidare l’esperienza soggettiva e il comportamento, piuttosto che come stati “intermittenti”. Partendo da un punto di vista genetico Emde puntualizza i correlati mimico-espressivi e comportamentali degli affetti riferendosi in particolare ad un periodo che va dagli 0 ai 3 anni, quali il sorriso sociale, l’angoscia per l’estraneo, l’euforia che accompagna le prime acquisizioni motorie, l’empatia collegata al fenomeno del “riferimento sociale”, fino alle emozioni morali precoci quale l’orgoglio, la vergogna e la colpa. Gli affetti sono dotati di una funzione originariamente comunicativa a livello interpersonale: il bambino, fin dalla seconda metà del primo anno di vita, a fronte di situazioni incerte o ambigue, farebbe costantemente riferimento alla madre o al cargiver e alle sue espressioni mimiche per codificare le ambiguità. Quindi la disponibilità emotiva della madre dovrebbe garantire al bambino l’esperienza di condivisione degli affetti per lo sviluppo del nucleo affettivo del Sé (il nucleo di base della personalità infantile), fungendo da guida del comportamento e dell’esperienza del soggetto e rappresentando, al contempo, la garanzia della continuità dell’esistenza di quest’ultimo. Molto di questi enunciati ci ricordano i fondamenti della teoria di Bowlby.
Questi dati relativi alla prima infanzia indicano che l’originale e basilare funzione delle emozioni umane è quella di regolare le rappresentazioni mentali dei contatti e delle relazioni interpersonali. Le espressioni emotive in grado di influenzare l’avvicinamento o l’allontanamento degli altri e la comunicazione con essi sono anche in rapporto e interazione con gli sforzi cognitivi o la padronanza di eventi puramente oggettivi. Altri correlati con un minor contenuto psicologico delle espozioni possono essere facilmente distinti da quelli interpersonali. Così la regolazione fisiologica dell’attivazione cerebrale o della circolazione sanguigna, la scarica ormonale e la respirazione si accompagnano agli stai emotivi semplicemente in quanto cervello e corpo sono necessariamente implicati nei comportamenti che accompagnano i contatti interpersonali. Le emozioni non devono essere identificate o ridotte a questi stati cerebrali e corporei a nessuno stadio dello sviluppo. Infine si dovrebbe dare rilievo al fatto che le emozioni svolgono un ruolo fondamentale nella vita e nel processo di socializzazione di tipo adattivo e permettono lo stabilirsi e la regolazione dei coinvolgimento interpersonale e delle relazioni umane.
Fonte: (Riassunto da) “Psicologo verso la professione” , P.Moderato-F. Rovetto; ed. Mc Graw Hill
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