Intervista a Massimo Giliberto, Direttore dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova
a cura di: Elisa Petteni
Premessa
Un giorno di qualche mese fa, chiacchierando con Elisa Petteni, tirocinante post-lauream presso l’Institute, dalla curiosità mai sazia, spesso irriverente e, quindi, sempre prodiga di domande, mi è sorta l’idea di questa particolare intervista. Incuriosito dalla sua curiosità, le ho proposto di farmi le domande che, secondo lei, avrebbe voluto farmi un collega o un aspirante allievo interessato a questa scuola. Senza farmi sconti. Lei ha accettato e questo è il risultato che, sebbene rivisto e corretto per renderlo più fruibile, è molto vicino a quanto ci siamo effettivamente detti.
Massimo Giliberto
Come mai sei diventato uno psicoterapeuta?
Sinceramente, ancora oggi non avrei una risposta che riesca a convincere del tutto me stesso, innanzitutto. So che a un certo punto mi è parsa una strada percorribile e, via via, mi ci sono appassionato. Quando mi sono laureato in psicologia non avevo un grande interesse per la psicoterapia: mi sembrava un esercizio di potere improprio, dove una persona, il terapeuta, assumeva di essere un esperto della realtà, il cui compito fosse riportare l’altro, il paziente, a criteri e a standard di presunta normalità o, comunque, di maggiore aderenza alla pretesa oggettività delle cose. Erano anni molto politicizzati, io ero affascinato dall’antipsichiatria basagliana, dalla lettura di Goffman, dagli scritti di Foucault, dai testi di Rom Harré e questa idea della psicoterapia, francamente, non mi piaceva. Era, ai miei occhi, un’espressione perversa dell’arroganza del potere.
Allora hai ceduto al potere?
No, ho incontrato un libro. Un giorno qualcuno mi ha parlato de “L’Uomo Ricercatore” di Don Bannister e Fay Fransella e mi ha consigliato di leggerlo.
Uno di quei libri che cambiano la vita?
Sembra un ironico luogo comune, ma per me è stato così.
Cosa aveva di particolare questo libro per te?
Mi viene in mente una lista di cose: passione, rispetto, novità. Qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che prima mi teneva lontano dalla clinica.
Diverso in cosa?
Mi verrebbe da risponderti: in tutto. E in parte è così, perché se cambi l’idea di cosa sia una persona, cambi l’idea di cosa siano la psicologia e la psicoterapia. “L’Uomo Ricercatore” è un’apprezzabile introduzione alla Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) di Kelly, dove la persona, da oggetto della psicoterapia o della psicologia, ne diviene finalmente il soggetto; viene considerata cioè – molto banalmente, ma anche in maniera assolutamente rivoluzionaria rispetto al mainstream – un’attiva creatrice della propria visione del mondo. La persona, finalmente, era vista dal punto di vista della persona, uomini e donne divenivano esperti di se stessi.
E’ questa la novità? E se è così, che bisogno c’è di esperti professionali?
Questa, forse, non era un’idea del tutto nuova ma Kelly, per la prima volta, ci costruiva attorno una teoria psicologica completa e articolata che era anche una fruibile e rigorosa teoria della prassi terapeutica. Il terapeuta smetteva di essere un guru, un tecnico, o comunque l’unico esperto nella relazione, e diventava persona fra le persone: un ricercatore, un esploratore, che, con i propri pazienti – o con i propri clienti, per meglio dire – era in un rapporto di collaborazione e ricerca, se non proprio alla pari – perché in ogni caso il terapeuta è il depositario di una grande responsabilità – comunque tendente alla paritarietà. Un terapeuta non diverso, in essenza, come persona, da chi gli chiede aiuto ma che, al contempo, maneggia un’ampia teoria delle teorie altrui. Un esperto lettore di visioni del mondo diverse, un antropologo delle psicologie personali di ognuno è anche colui che può aiutare gli altri ad andare oltre le trappole delle proprie teorie. Trovo che questo giustifichi l’esistenza di “esperti professionali”, come dici tu. Questa visione delle cose, prima che della psicologia e della psicoterapia, mi appassionava e tutt’ora mi appassiona molto.
Insomma, è un libro che ha toccato qualcosa…
Di sicuro ha solleticato la mia vena critica, la mia etica, ha sollecitato qualcosa cui ero molto sensibile, e da qualche tempo. L’Uomo Ricercatore mi aveva colpito, ricordo, anche perché conteneva degli elementi con cui io mi ero già confrontato nella stesura della mia tesi di laurea, il cui titolo era “La psicologia tra scienza e senso comune”. In particolare, con l’idea che la psicologia del mainstream, escludendo dal suo campo di pertinenza il ‘soggetto’, la persona come interprete competente delle proprie azioni, tende alla banalità o all’irrilevanza. La psicologia dei costrutti personali dimostrava, ai miei occhi, la possibilità di una psicologia professionale che rendesse conto della competenza psicologica e delle teorie personali di ognuno. Una grande cosa.
E da lì all’idea che ti ha spinto a fondare una scuola?
Beh, prima dell’idea di fondare una scuola, per me, c’è la passione per l’insegnamento. A me insegnare piace ed entusiasma.
E cosa c’entra la passione per l’insegnamento con la fondazione di una scuola?
Dunque, provo a fare un po’ di ordine. Prima nasce l’interesse per la psicoterapia, l’idea che possa essere davvero un mestiere utile a qualcuno, poi scopro la passione per l’insegnamento e, infine, fondo una scuola. Questa è una storia, un percorso molto lungo, con una trama articolata… Provo una disperata sintesi. Mi sono formato in una scuola di tipo costruttivista in un periodo in cui né la psicologia né la psicoterapia erano riconosciute come professioni. Nel panorama di scuole selvagge che all’epoca affollavano la penisola, questa era sicuramente una scuola diversa e seria. Tanto che, pur abitando a Padova, tutte le settimane mi sobbarcavo il viaggio per Roma, dove la scuola aveva la sua sede. In seguito, ho avuto modo di completare e affinare la mia preparazione come didatta presso un’altra scuola, scoprendo il piacere legato alla sfida dell’insegnamento. E’ stato, questo, un periodo intenso, formativo, bello e controverso. Diventato didatta, anche a seguito di vicissitudini personali e dissapori con i didatti con cui lavoravo allora, ho cominciato a chiedermi qual era il modo in cui, a me, sarebbe piaciuto incarnare e rendere coerenti le idee del costruttivismo a una struttura complessa e difficile come una scuola di psicoterapia. Idee che, condivise con altri colleghi, hanno dato corpo al desiderio di trasformare il sogno, la visione in qualcosa di concreto. Insieme abbiamo realizzato il sogno nel 2004. Eccoci.
E quale scuola sognavi?
Sognavo una scuola che fosse aperta agli studenti, un laboratorio fervente di attività, in cui agli allievi non fossero concesse solo le ore d’aula. Una scuola frequentata da docenti e allievi tutti i giorni. Pensavo a un crocevia di idee e incontri. Sognavo un istituto di riferimento per costruttivisti italiani e stranieri, snodo importante per un network più ampio e di respiro internazionale. Desideravo un centro clinico in cui gli specializzandi facessero una sana e guidata pratica. Ero sedotto dall’idea di una scuola che somigliasse a una pentola sobbollente che produce cultura. Questa era la visione che mi entusiasmava allora e che continua ad appassionarmi oggi. Il che spero rispecchi abbastanza l’ICP.
Un porto di mare, insomma, piuttosto che il centro di una cittadina svizzera?
Il paragone mi piace, ma forse non è del tutto appropriato. Una scuola come quella che ti ho descritto richiede uno sforzo e un rigore organizzativo enormi. Magari è un vivace porto organizzato secondo criteri svizzeri, chissà.
Quindi, adesso, cosa distingue la tua scuola rispetto ad altre di matrice costruttivista? Cosa offre in più? Cosa offre di diverso?
Preferisco parlare di che cosa facciamo noi, di come siamo organizzati, ossia del modo in cui cerchiamo di essere coerenti con i presupposti del costruttivismo. Il paragone, eventualmente, sulla base di questi elementi, lo faranno altri. Il modo in cui con un gruppo di colleghi abbiamo inteso una scuola costruttivista, si fonda sull’assunto che le persone sono attive costruttrici del proprio universo all’interno delle proprie relazioni. Kelly, avvalendosi del potere di sintesi della metafora, per spiegare quest’approccio suggeriva di guardare alla persona come a uno scienziato, continuamente impegnato a verificare le sue ipotesi, a testare quanto le sue ‘teorie’ avessero senso. Concetto che appare oggi semplice e quasi scontato, ma le cui implicazioni, se seguite fino in fondo, sono complesse, difficili e rivoluzionarie a un tempo. In altre parole, enunciarlo è facile, seguirlo è arduo. Nella psicoterapia, nella didattica, nell’organizzazione della didattica, quanto… nella vita.
Fermiamoci, per il momento, alla didattica: quali sono le implicazioni?
La prima implicazione è che imparare è un’esperienza, un esperimento in cui tanto l’allievo quanto il docente sono ricercatori coinvolti in un’indagine personalmente rilevante. Dal nostro punto di vista, il processo formativo è una ricerca, un viaggio in cui le persone sono attive. L’aula e la lezione diventano un vero e proprio laboratorio della relazione e delle idee, un’officina. Il focus è l’interpretazione che l’allievo dà, seguendo il filo delle sue domande, a quanto accade. La domanda, in altre parole, e la sua rilevanza per l’allievo, assume maggior valore delle risposte predefinite dell’insegnante. Ma questo non è che l’ABC della didattica costruttivista e, forse, della didattica in genere.
Cos’altro c’è se andiamo oltre l’ABC, allora?
C’è molto. Coerentemente con gli assunti del costruttivismo, l’esperienza formativa è globale: coinvolge, ingloba tutto ciò che accade, e come accade, nella scuola. In altre parole, la visuale si allarga dalla semplice azione didattica – l’aula, per intenderci – all’organizzazione della didattica stessa, alla struttura attorno a cui una scuola costruttivista prende forma e concretizza le sue azioni. La formazione, infatti, coerentemente con i nostri fondamenti, non può essere un processo che si limita alle ore di lezione – senza nulla togliere a queste – ma va pensata ampliandola ai momenti che stanno tra le lezioni. E’ la scuola stessa che diventa evento formativo.
E gli studenti? C’entrano qualcosa? Che ruolo hanno?
Ovvio che c’entrano qualcosa. Una scuola costruttivista, per come l’abbiamo pensata noi, deve essere una scuola che produce cultura, che fa si che gli studenti diventino e siano essi stessi dei ricercatori. La scuola è una specie di calderone in cui la cultura professionale viene elaborata, cucinata, creata e realizzata anche dagli studenti, che vanno incoraggiati in questa direzione e a cui deve essere permesso in tutti i modi di seguire le loro personali passioni e linee di interesse.
Sembrano degli slogan accattivanti… Ma nel concreto?
Nel concreto, la nostra scuola è un ambiente aperto agli allievi, costantemente, non esclusivamente quando c’è lezione. E’ una scuola che gli studenti, e non solo, frequentano abitualmente. Il cuore pulsante dell’Istituto, il luogo degli incontri e delle idee non poteva che essere la biblioteca. E’ una biblioteca che abbiamo cercato, grazie soprattutto alla competenza di Francesco Velicogna, di rendere fornita, in cui abbiamo investito molte risorse perché ci fosse tutto quanto, o quasi, è stato pubblicato sulla PCP. E’ il luogo dove gli studenti organizzano gruppi di lavoro, intervisioni, vengono a studiare, trovano i testi necessari per i loro studi e i loro interessi. Mi piace pensare che la misura di quanto una scuola sia viva è rappresentata da quanto la sua biblioteca e la sua sede siano frequentate tutti i giorni.
La didattica, l’organizzazione: dalla A alla Z c’è altro?
Sì, direi di sì. Un terzo anello, un terzo ordine di ampliamento della didattica, infine, è quello che riguarda il fare network ed essere attivi in una comunità professionale allargata e di respiro internazionale. Una scuola costruita interamente attorno all’esperienza formativa, e dove la pratica educativa è l’insieme, è necessariamente un ambiente dove gli studenti stessi sono invitati a produrre lavori e a presentarli, discuterli e confrontarsi con i colleghi anche di altri paesi. Vedi, molto in concreto, credo che non possiamo fare questo mestiere chiudendoci fra le quattro mura della stanza della psicoterapia; penso che dobbiamo continuare a confrontarci, per crescere, per seguitare a esplorare. Per fare questo, per allargare i nostri orizzonti, dobbiamo incontrare i colleghi italiani cosi come quelli stranieri. Insomma, abbiamo bisogno di allargare i nostri confini. Per questo, per esempio, ospitiamo molti docenti stranieri e partecipiamo annualmente con i nostri studenti alla Summer School dell’ECTN (European Constructivist Training Network). L‘idea è quella di costruire e tessere continuamente relazioni, collaborazioni, all’interno di una sfida intellettuale che non ha una fine, ma è continua, in cui gli studenti sono attivi protagonisti e non passivi fruitori. Cerchiamo di non essere le badanti dei nostri studenti, cerchiamo di essere, in questo senso, dei mentori.
Sembra tutto molto bello. E’ la scuola del Mulino Bianco, senza difetti?
Me ne rendo conto. Io del resto sono innamorato di questa scuola e, probabilmente, come tutti gli innamorati faccio fatica a vederne i difetti. Il che non vuol dire che non ci siano. Provo… Mi viene in mente che è una scuola impegnativa e talvolta il prezzo da pagare, in termini emotivi, può essere alto. Penso che forse facciamo troppe cose e che rischiamo di essere, in alcune occasioni, dispersivi. Credo anche che la sede in cui ci troviamo sia diventata troppo piccola e stia ormai stretta alla miriade di attività che mettiamo in campo. La famiglia è cresciuta e ci vorrebbe una casa più grande, ma non è facile. Sono convinto che facciamo errori, come tutti, e che ci sia sempre qualcosa da migliorare.
Rimanendo legati al discorso di questa didattica differente, mi chiedo come siano impostate le lezioni.
Per capire come sono impostate le lezioni bisogna prima sapere come sono impostati i programmi. Diciamo subito che c’è un’ossatura dei programmi imposta per legge dal Ministero che questa scuola, come le altre scuole, deve rispettare. Come tutti, da un lato, abbiamo degli insegnamenti di tipo teorico, i cui docenti sono spesso docenti universitari, e che si riferiscono a materie di base come la psicologia generale e la psicologia dello sviluppo; dall’altro, c’è tutta l’area della formazione specifica, o teorico-pratica, che è quella dell’indirizzo caratteristico insegnato in questa scuola.
E la didattica di queste due aree è differente?
Direi di sì. Le lezioni di area teorica possono essere prevalentemente frontali, anche se non è sempre così. La scelta dipende dal docente che rispetto a questo è autonomo. Le lezioni di carattere specifico, cioè quelle focalizzate sulla psicoterapia, sono, invece, lezioni prevalentemente di tipo esperienziale, dove, ogniqualvolta è possibile, anche la teoria passa attraverso forme di esperienza concreta. La classe è considerata un gruppo di apprendimento, diventa una piccola comunità, dove le relazioni tra gli specializzandi e quelle tra gli specializzandi e i didatti sono una specie di laboratorio in cui addestrarsi alla relazione terapeutica vera e propria. Onestamente, e se non altro per quanto riguarda la formazione specifica, mi sento di dover ribadire che la nostra non è assolutamente una scuola facile: richiede un certo coinvolgimento e anche la voglia o, la capacità, di mettersi in discussione; non solo da parte degli allievi ma anche da parte dei didatti. E’ una scuola piuttosto movimentata e scomoda, direi.
Mi chiedo anche se vi siano delle materie specifiche che fanno riferimento ad altro, oltre all’orientamento costruttivista. O siete strettamente ortodossi?
C’è una sostanziale differenza fra essere strettamente ortodossi ed essere rigorosi. Credo che l’unico modo per essere costruttivisti e kelliani puri e rigorosi, sia essere impuri. Essere aperti a visioni del mondo alternative è un presupposto del costruttivismo che vale, riflessivamente, per il costruttivismo stesso. In fondo, se ci pensi, nel costruttivismo è già racchiuso un meccanismo di autodistruzione. Per venire più strettamente alla tua domanda, l’area degli insegnamenti teorici prevede per regolamento ministeriale che siano presentati anche altri modelli teorici. Ed è quello che anche noi facciamo, chiamando didatti esperti di quegli orientamenti.
E rispetto all’esigenza, alla necessità, presentata da alcune scuole, ma non da tutte, della terapia personale degli allievi?
Apri una grossa e controversa questione. Ti dico subito che io credo nell’utilità di una terapia didattica personale. Vedi, il problema è che questo genere di formazione non può e non deve essere la ripetizione di un corso universitario. Questa è una scuola professionalizzante. O meglio, le scuole di psicoterapia sono o dovrebbero essere istituti professionalizzanti, quindi dovrebbero specificatamente preparare alla pratica clinica. E pongo l’accento sulla parola “pratica”. Chi si diploma non dovrebbe conoscere solo una teoria, ma dovrebbe essere in grado di applicare la teoria – ammesso che sia una teoria della prassi – nel concreto della situazione terapeutica.
E questo, secondo te, implica la necessità di un’analisi personale?
Ciò implica, dal mio punto di vista, che accadano almeno due cose. La prima è che gli allievi possano fare esperienza clinica, cioè sperimentarsi come psicoterapeuti. Io non credo che tu ti fideresti di un chirurgo che non avesse mai preso in mano un bisturi, ma avesse semplicemente letto dei libri su come si tagliano le pance. E’ per questo che noi abbiamo un centro clinico dove gli studenti la pratica, sotto la guida e la tutela dei loro supervisori, la fanno davvero. La seconda è che per stare in maniera efficace o, quantomeno, non dannosa, dignitosa di fronte a un cliente, o a una persona che soffre, è opportuno che il terapeuta conosca bene i propri limiti. Diciamo anche che, in questo mestiere, a mio avviso, la relazione non è un elemento fra i molti, ma è l’elemento fondamentale entro il quale tutto avviene. Ne consegue, credo, che per prepararci a questo bisogna conoscere ed esplorare i nostri confini, il modo in cui siamo fatti e tutti quegli aspetti di noi che potrebbero essere rilevanti all’interno della relazione terapeutica, sia in senso ottimale, che in senso potenzialmente dannoso. Detto questo, mi pare sia sensato affermare che un’analisi didattica personale è necessaria sia per tutelare i futuri clienti sia per salvaguardare il terapeuta stesso.
Quindi il coinvolgimento del terapeuta all’interno della terapia è totale?
Bisogna capire cosa s’intende. Da un certo punto di vista, il coinvolgimento è totale perlomeno per una buona ragione. Poiché si lavora nella relazione, con la relazione, il terapeuta non può sottrarsi mai, in nessun momento a essa. E nell’incontro – potrebbe essere altrimenti? – il terapeuta è presente con la sua personale interpretazione del mondo e con la sua visione professionale di ciò che sta accadendo. In questo senso il terapeuta non può distrarsi neanche una frazione di secondo. La presenza del terapeuta è costante o, almeno, dovrebbe essere tale. Credo sia sufficiente questo per affermare che se un terapeuta si annoia, vuol dire che non sta lavorando.
Hai accennato a una visione professionale, mi chiedo se si vi siano degli ambiti privilegiati o un’utenza specifica verso la quale applicare questa psicologia.
No, non vi sono ambiti privilegiati, utenze specifiche e sindromi particolari cui applicare questa forma di psicoterapia.
Scusami, stai dicendo che siete dei ‘tuttologi’ della psicoterapia?
No, sto dicendo qualcosa di diverso. La psicologia dei costrutti personali non è focalizzata – come il mainstream clinico – su sindromi, sintomi, malattie e disturbi, ma è focalizzata sul modo in cui le persone, attraverso l’esperienza, costruiscono la loro visione del mondo. E’ centrata sulla persona come costruttrice di significati e interprete, nel bene e nel male, della propria esistenza. In quanto tale, ogni persona può essere compresa, ogni azione per quanto strana, ogni disturbo, ogni esperienza ‘letta’ e capita. Quello che voglio dire è che noi lavoriamo con le persone, non sui disturbi. Nella misura in cui noi riusciamo a comprendere ciò che le persone stanno cercando di fare per dare un senso al loro universo, al loro mondo, alle loro relazioni con gli altri, a se stessi – anche quando questo senso non è evidente né chiaro – noi possiamo lavorare con chiunque.
Stiamo parlando della psicoterapia classica, quella individuale e da studio privato o anche di altro?
Il focus di pertinenza di questo approccio è ampio. Possiamo lavorare in terapia individuale, come nella terapia di coppia, della famiglia o usare i gruppi. Anche i contesti e i setting possono cambiare e non limitarsi allo studio privato. Il filo rosso che tiene insieme tutte queste cose è la costruzione dei significati, l’elaborazione di narrazioni personali entro le relazioni.
Precedentemente hai parlato di rapporto terapeutico e di coinvolgimento del terapeuta, ci sono dei requisiti che deve possedere la persona e che tu ritieni particolarmente importanti per quanto riguarda lo svolgimento del ruolo di terapeuta
Coraggio, creatività, rigore, eticità, competenza sono le prime parole che mi vengono in mente. Per ognuna potremmo tenere una conferenza, ma non è questo il momento. Più in generale, penso che un criterio importante per un costruttivista e, a mio parere, per un terapeuta di qualunque estrazione, sia la disponibilità a vedere il mondo con gli occhi dell’altro. Forse è questo il criterio aspecifico e ateorico di cui si discute in letteratura. Eppure è un requisito tutt’altro che scontato. Un secondo requisito, strettamente connesso al primo, consiste nella disponibilità a operare una revisione rispetto alle proprie idee, alle proprie anticipazioni, alle proprie opinioni. In altri termini, è il coraggio di aver torto e la forza di ripartire, avendo imparato qualcosa.
Ed è sulla base di questo che voi selezionate gli allievi?
Questo è il punto di arrivo, semmai. Ovvio che in un candidato dobbiamo vedere la possibilità che ciò si realizzi.
Mi è capitato di sentire da un collega che Kelly e la PCP siano stati un po’ sottovalutati, magari in ambito universitario, ad esempio, dove non viene fornita una panoramica così specifica sul costruttivismo. Per quale ragione, secondo te?
Io non sono certo dei motivi per cui questo succede, forse ci sono delle ragioni interne alla teoria e poi delle origini storiche.
Cioè?
E’ un dato, per esempio, che ovunque nel mondo ci sia una scarsa presenza di costruttivisti kelliani all’interno delle università. Qualche piccola enclave brilla e si difende qua e là, Padova compresa. Ma si tratta di enclavi, appunto. Se ricerchiamo alcune spiegazioni storiche di questa situazione, queste possono essere due. Perlomeno, queste sono quelle che riesco a immaginare io. La prima è che l’accademico Kelly era troppo in anticipo sui tempi per essere compreso e accolto appieno nella comunità dei pari. Kelly scrive la sua opera fondamentale nel 1955, quando di costruttivismo, in effetti, non si parlava ancora, anche se Piaget aveva già introdotto il termine riferendosi alla sua epistemologia genetica. Il costruttivismo era già nell’aria e germogliava su più fronti disciplinari, ma il paradigma dominate e pervasivo era il neo-positivismo. La seconda ragione può riguardare il fatto che chi ha diffuso dopo Kelly la PCP, lo ha fatto incarnandone lo spirito anarcoide, per cui ha rifiutato di istituzionalizzarsi preferendo un’identità di movimento. Si faceva, si può dire, la scommessa di un costruttivismo kelliano che si sarebbe diffuso esclusivamente per la forza delle proprie idee… Questo in parte non è stato, e bisogna riconoscerlo.
E le ragioni interne alla teoria?
Anche qui me ne vengono in mente due. Innanzitutto, la PCP è veramente, ancora oggi, una teoria molto rivoluzionaria che, quindi, mina i fondamenti di ciò che molti danno per certo e scontato. Ad esempio, se nel mainstream della psicologia clinica esiste una grande differenza tra ciò che è sano e ciò che è malato, all’interno della PCP questa differenza perde senso e si dissolve: ogni scelta che la persona compie, ogni cosa che la persona fa ha un senso, ed è ciò che di meglio può fare anche quando si esprime attraverso un sintomo o un disagio. Il punto è trovare il senso che questa persona, all’interno del suo sistema di significati, da’ – o può dare – a una certa condotta o a un certo modo di agire. Ti rendi conto di cosa può voler dire per un clinico, magari con anni di carriera alle spalle, accettare di perdere la certezza fattuale delle sue categorie diagnostiche? O per chiunque, rinunciare alla rassicurante separazione fra ciò che è folle e insensato e ciò che è sano? Abbandonare la tentazione della certezza non è facile.
Accennavi a un’altra ragione intrinseca, quale?
L’altra ragione è che Kelly è ostico: si inventa un linguaggio tutto nuovo che può disorientare e presenta la sua teoria come fosse una teoria matematica. Un postulato e undici corollari scritti in maniera precisissima, quasi da ossessivo, possono spaventare, apparire distanzianti e freddi. L’impatto spesso non è gradevole. Bisogna bucare questo primo strato per scoprire una teoria tutt’altro che fredda ma piena di passione.
Ascoltandoti parlare di sintomi, salute e malattia, mi è parso di capire che non vi sia una vera e propria forma di diagnosi. Come viene affrontata quindi la definizione di un malessere?
Non è del tutto corretto dire che non c’è una forma di diagnosi; anzi, la diagnosi c’è ed è molto precisa.
E in cosa è diversa da una diagnosi classica?
E’ una diagnosi di processi, un modo per descrivere scelte, direzioni e vie di senso piuttosto che costellazioni di sintomi e malattie. Gli stessi termini che possono essere applicati a situazioni di persone che soffrono possono essere applicati anche a noi stessi e alla vita di tutti i giorni, senza alcuna distinzione tra normalità e patologia. Con questo non intendo disconoscere che le persone soffrano. Si tratta semplicemente di riconoscere che la loro sofferenza comunque ha un senso, o rappresenta il prezzo da pagare per qualcosa di significativo. Il modo in cui comprendiamo professionalmente questo senso è la diagnosi.
Il futuro professionale di un giovane diplomato in questa scuola si focalizza solamente sull’ambito clinico o vi sono altri contesti di applicazione della PCP? Quali prospettive lavorative ha?
Parliamo delle prospettive lavorative legate agli ambiti di applicazione della teoria?
Si, ma anche in relazione alla preparazione che questa specifica scuola offre ai suoi diplomati. Noi qui insegniamo la clinica. E’ questo il nostro mandato istituzionale ed è, logicamente, il fulcro del nostro intento formativo. I nostri allievi devono uscire da questa scuola, innanzitutto, sapendo fare il mestiere di psicoterapeuta. Devono potersi sedere di fronte a un cliente senza sentirsi persi, ma con la consapevolezza di potergli essere utili.
Solo terapia, quindi?
No. Non era quello che intendevo. Una buona preparazione alla pratica terapeutica dei costrutti personali è altamente spendibile anche in ambiti molto diversi dalla clinica. Nella PCP, essendo il focus sulla persona e sul suo universo di significati, chi professionalmente ben mastica e incarna questa teoria è in grado di lavorare, dal mio punto di vista, in tutti quei contesti in cui la relazione è fondamentale. Sto parlando del coaching nelle aziende, della consulenza, della formazione, dei contesti comunitari, ma anche della psicologia delle emergenze. Alcuni nostri allievi hanno partecipato, per esempio, alle squadre di soccorso psicologico durante il terremoto in Abruzzo, altri sono impegnati proprio in questo momento in Emilia e, stando ai report di chi li guida, il loro contributo è molto apprezzato. Quindi direi che non è lo strettissimo ambito clinico quello in cui i nostri specializzati possono cimentarsi, ma, tenendo conto della flessibilità applicativa della teoria e delle competenze linguistiche, di ricerca e di networking che sviluppano qui, il loro è un investimento per un futuro lavorativo potenzialmente versatile. Per quello che è possibile, inoltre, cerchiamo di aiutarli nello start-up della professione.
Puoi farmi qualche altro esempio?
Conosco un bel po’ di kelliani che spendono la loro competenza anche in aree diverse dalla clinica. Un esempio, per quello che può valere, sono io. Io vivo fondamentalmente di clinica e la insegno, ma una parte del mio tempo lavorativo lo uso come consulente per le aziende, come coach e formatore. E devo dire che utilizzo essenzialmente gli stessi strumenti teorici o pratici che impiego in psicoterapia, solo con modalità e tempi leggermente diversi.
Hai fatto adesso accenno agli strumenti. La PCP utilizza gli stessi strumenti delle altre psicologie ma in chiave differente o ha degli strumenti propri?
Direi tutte e due le cose. Utilizziamo tutti quegli strumenti che possono essere usati e interpretati in modo coerente con la teoria, anche se hanno un’origine diversa, e abbiamo strumenti, sia di assessment che di intervento, propri, nati nel cuore della PCP.
Puoi chiarire e fare qualche esempio?
Certo. Nel caso di quegli strumenti che hanno origine in altri contesti teorici, utilizziamo solo quelli in cui la persona può sentirsi ed essere un esperto e non semplicemente l’oggetto di una valutazione. Fra questi mi viene in mente, come esempio, il T.A.T.. Solo che il significato di ciò che la persona racconta non lo peschiamo in un dizionario precostituito di ‘veri significati’, come avviene nella sua somministrazione ortodossa, ma lo chiediamo a lei, lo ricostruiamo con lei. Lo stesso principio genera le tecniche e gli strumenti nati all’interno di questo approccio teorico. Fra le tecniche di assessment posso citarti le famigerate griglie di repertorio, l’autocaratterizzazione, il tema narrativo. Fra gli strumenti d’intervento posso nominarti la fixed role therapy, la pluralità dei sé. Ma molte altre ce ne sono.
Hai fatto riferimento alla formazione degli studenti, a come vengono seguiti e hai parlato di supervisione. Su cosa si focalizza la supervisione, in cosa consiste?
Il processo di supervisione è un lavoro complicato. Dovendolo riassumere, direi che si focalizza su tre aspetti o dimensioni. La prima è il sistema di significati o sistema di costrutti personali del cliente, il suo personale modo di costruire le relazioni, di fare esperienza. La seconda dimensione è quella del sistema personale del terapeuta, che in qualche modo comunque entra in questa relazione. La terza dimensione è quella più comprensiva e superordinata ed è quella del sistema di costrutti professionale, che mette insieme le dimensioni precedenti, queste due personali visioni del mondo, le rilegge. E’ il sistema teorico e professionale, in altre parole, che ci permette di dare un senso sia a ciò che cerca di fare il cliente, sia a ciò che può fare – e che può vedere – il terapeuta come persona, sia alla loro relazione.
E in cosa consiste, nella pratica, il lavoro di supervisione?
In pratica, lavorando su queste dimensioni, il supervisore aiuta il collega a rileggere la narrazione terapeutica affinché abbia coerenza ed evolva in una direzione positiva per il cliente. La supervisione è la palestra dove l’esperienza clinica va a verifica e, creativamente, disegna percorsi alternativi fuori dalle trappole, dei punti ciechi nelle visioni del terapeuta e del cliente. Nel concreto, questo noi lo facciamo a lezione e tutta la classe partecipa alla supervisione di ognuno. Gli allievi, poi, sono incoraggiati a inter-visionarsi in piccoli gruppi, nel tempo che corre fra le lezioni. In questa scuola la supervisione è una responsabilità il più possibile condivisa.
E tu cosa ti sentiresti di consigliare a un giovane neolaureato che volesse diventare un terapeuta? Cosa dovrebbe, secondo te, prendere in considerazione nella scelta della scuola di specializzazione?
La prima cosa che gli direi è che questo è un mestiere bellissimo e che chi è preparato, nel tempo, ha buone possibilità di emergere. Detto questo, ciò che dirò vale anche nei confronti di questa scuola. Mi sentirei di consigliare all’aspirante allievo di controllare che cosa effettivamente le scuole realizzano nell’insieme delle loro attività. Accerterei, se fossi al suo posto, che la scuola abbia una sede sempre operativa, con una sua identità e con dei servizi fruibili. Se, a valle di queste verifiche, il giovane neolaureato concludesse che quella è una scuola dinamica e costruita attorno alla concreta esperienza formativa degli allievi, questo, a mio parere, ne indicherebbe se non la bontà, quantomeno il genuino interesse verso gli studenti. A prescindere dall’orientamento della scuola. Un altro consiglio che gli darei è quello di parlare con gli allievi. Li cerchi. Li scovi. Controllerei quanto spazio è lasciato alla pratica clinica. Verificherei che chi insegna la psicoterapia eserciti effettivamente la psicoterapia. Appurerei la trasparenza dei costi. Infine, gli suggerirei di verificare se esiste un patto formativo chiaro.
Qual è l’insegnamento che hai ricevuto e che ritieni più importante, più utile nella tua storia professionale?
Non ne sono sicuro. Se mi rifacessi la stessa domanda domani, o forse solo fra qualche ora, potrei risponderti diversamente. Ora mi sento di dirti che una delle cose più affascinanti e belle che ho scoperto è che oltrepassando qualsiasi ‘riduzione’ dell’altro, quando si scopre il mondo attraverso i suoi occhi, si scoprono pianeti diversi, abitati, in cui tu puoi atterrare e fare esperienze molto lontane rispetto a quelle che sino a poco prima potevi concepire. Conoscere gli altri è un viaggio quasi infinito.
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“In principio Dio creò il cielo e la terra. (…) Dio disse: "Sia la luce!". E [...]
C’era una volta… la mia storia
Girovagando per una libreria è quasi impossibile non imbattersi in un'autobiografia. Questo genere letterario unisce [...]
Perché una scuola costruttivista
Intervista a Massimo Giliberto, Direttore dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova a cura di: Elisa Petteni Premessa [...]
Come trasformare un fallimento in un successo terapeutico
"Il successo è l'abilità di passare da un fallimento all'altro senza perdere entusiasmo". (W. Churchill) [...]