Come abbiamo visto nella prima parte dell’articolo, il linguaggio psicologico – sia quello scientifico che quello usato quotidianamente – è pregno di espressioni metaforiche. Ad esempio la mente può essere concepita come una macchina[1] (“mi sono arrugginito”), un computer (gli input e gli output, la scatola nera), un oggetto (“ha un Sé fragile”) o, ancora, un social network (“per fare una mente ci vogliono due cervelli in interazione”).
Queste ed altre metafore convivono nel lessico psicologico, mettendo in luce di volta in volta aspetti diversi dei fenomeni mentali che vogliono descrivere, di per sé intangibili e inosservabili. Si badi che questa non è un’esigenza stilistica, ma il mezzo tramite cui il non conosciuto, metaforizzato, diventa una “cosa” conoscibile.
Tuttavia pensare alla mente umana attraverso un’analogia, ad esempio quella meccanicistica, significa anche farsi implicitamente carico, nella propria teoria, non solo dei modi di dire ma anche degli schemi di pensiero e di analisi propri di quest’ambito conoscitivo. Ad esempio una mente come macchina può essere accesa o spenta, è dotata di un livello di efficienza, di capacità produttive e di meccanismi interni, ha bisogno di una fonte di energia ed è sottoposta a certe condizioni di funzionamento. Un oggetto fragile, invece, rimanda ai concetti di forza, di pressione, di rottura: l’ambito di esperienza è lo stesso, ma le due metafore ne focalizzano aspetti concorrenti.
Come sappiamo bene, il modo in cui guardiamo ed interpretiamo gli eventi influenza anche le nostre azioni. Quindi caratterizzare la mente nell’ambito della meccanica o della fisica stabilisce anche come ci comporteremo per far fronte alle problematiche che eventualmente insorgeranno, perché qualcosa che smette di funzionare va trattato in modo ben diverso da qualcosa che è andato in pezzi...
Metafore ed esperienza
Le metafore usate per concettualizzare la mente sono così diffuse nella quotidianità da apparirne naturali e dirette descrizioni. Usando un’analogia per riflettere uno o più aspetti di quella stessa natura umana che l’ha creata, si può così finire col dimenticarne l’origine (metaforica) e col proporla come un modello dotato di vita propria. Se ne può perdere l’iniziale valenza allusiva e polisemica, cristallizzandola e reificandola.
Tuttavia è in base a questi modelli di mente che tutte le persone pensano, parlano e agiscono: utilizzando le metafore psicologiche disponibili nel proprio tessuto culturale, si può cominciare a pensare a se stessi come individui aventi un’identità distinta, una memoria con una certa capacità di contenuto, dei sentimenti solidi e tangibili.
Ad esempio se si pensa all’amore come ad un’emozione si descrivono in questi termini non solo il concetto, ma anche il comportamento di chi si ritiene esserne coinvolto; se lo si pensa come una creazione comune formata nel tempo ce lo si rappresenta in modo radicalmente diverso, al punto da identificare altre esperienze sotto il nome “essere innamorato”.
Noi individuiamo certi insiemi di eventi sulla base dei nostri presupposti metaforicamente orientati e in questi stessi termini forniamo loro un certo significato. A questo punto i nostri vissuti e la nostra stessa autopercezione cambiano a seconda dell’etichetta che si è “scelto” di dare a questo particolare vissuto: ogni metafora porta con sé ulteriori, inevitabili conseguenze in termini di reazioni, azioni, sentimenti, aspettative, definendo la nostra soggettività nella situazione.
Il linguaggio, allora, non fornisce solo un accesso alla realtà: in esso “noi non cerchiamo qualcosa. Noi costruiamo qualcosa” (Wittgenstein, 1933-34, p. 26). Le metafore, mentre provvedono di una cornice all’interno della quale è possibile la comunicazione, finiscono per essere vere negli effetti che producono.
Una suggestione terapeutica
All’inizio di un percorso psicoterapeutico, ma anche in seguito, potrebbe rivelarsi particolarmente utile una comprensione della “teoria metaforica” che i propri clienti hanno costruito sugli eventi che stanno vivendo.
Ad esempio una crisi di coppia può essere guardata da persone diverse o anche da uno stesso individuo in momenti successivi come ad un lavoro (“Non stiamo costruendo niente insieme”), un viaggio (“La nostra relazione è ad un vicolo cieco”), un paziente (“Ci stiamo rimettendo in piedi”), una guerra (“Ho bisogno di una tregua”), o follia (“Mi fai diventare matta!”).
Queste espressioni sono modi diversi e, forse, incompatibili di rappresentare il vissuto che si sta sperimentando in relazione al proprio partner, costruendo nella propria esperienza soggettiva determinate rappresentazioni e aspettative. Così di fronte ad una medesima situazione, come un forte litigio, uno dei due partner potrebbe ritenere che in un lavoro così importante come quello dell’amore vadano messi in conto dei diverbi per negoziare un progetto condiviso, che richiede impegno ma che ripagherà di ogni sforzo; il secondo, invece, che si sia arrivati ad un bivio e che ora debbano scegliere se continuare il viaggio ognuno per conto proprio.
Un’analisi dei processi di costruzione e utilizzo delle diverse metafore permetterà al terapeuta sia di comprendere e aiutare a ristrutturare i significati, le rappresentazioni e i ”nodi” problematici della coppia, sia di porre costantemente attenzione a come lui stesso parla e definisce gli eventi in funzione degli effetti pragmatici che si propone di ottenere.
BIBLIOGRAFIA
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WITTGENSTEIN L. (1933-34), The Blue and Brown Books, a cura di R. Rhees (1958), Blackwell, Oxford
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