Di: Dr. Daniele Irto
Psicologo e Psicoterapeuta in Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana
I disturbi di personalità costituiscono ormai evidentemente un gruppo assai eterogeneo di disturbi psicologici codificati sull’asse II del DSM e possono costituire il contesto in cui problematiche di asse I (ad essi spesso associate) vengano plasmate in diversi modi.
Ora, un disturbo di personalità può definirsi genericamente come un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia notevolmente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo: un modello pervasivo, inflessibile e tale da provocare disagio e compromissione del funzionamento sociale e lavorativo, provocando a volte anche sofferenza soggettiva.
L’individuo a cui viene diagnosticata una personalità borderline è caratterizzato da instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’umore e nell’immagine di sé.
Secondo il DSM IV per avere una diagnosi di “disturbo borderline di personalità” devono manifestarsi simultaneamente almeno cinque tra nove criteri diagnostici che riguardano gli stili di comportamento e gli atteggiamenti emotivi abituali del paziente, ossia:
- forte sentimento di instabilità e incertezza circa la propria identità
- paura cronica di essere abbandonati
- drammatica instabilità nelle relazioni affettive
- marcata reattività dell’umore (rapide oscillazioni del tono emotivo fra depressione, euforia, irritabilità e ansia),
- frequenti esperienze di collera immotivata
- cronici sentimenti di vuoto interiore
- transitori ma ricorrenti sintomi dissociativi (depersonalizzazione, amnesie lacunari, stati oniroidi di coscienza) oppure di ideazione paranoide
- comportamenti auto-lesivi impulsivi e incontrollabili (abbuffate compulsive, promiscuità sessuale senza attenzione a rischi di infezioni o di gravidanze indesiderate, cleptomania, abusi di alcool e droghe, ferite auto-procurate)
- minacce o tentativi ricorrenti di suicidio.
Ora, la denominazione di “condizione borderline” interessa nel suo senso più ampio tutti i disturbi di personalità che, nonostante la contraddittorietà delle evidenze empiriche, possiamo per convenzione suddividere in un gruppo A (disturbo paranoide, schizoide e schizotipico di personalità), un gruppo B (disturbo borderline, narcisistico, antisociale, isterico e istrionico di personalità), un gruppo C (disturbo ossessivo compulsivo, evitante e dipendente di personalità), e i disturbi di personalità non altrimenti specificati.
Questa suddivisione tecnica non ne toglie, tuttavia, un uso assolutamente improprio che spesso in ambito clinico la trasforma in una sorta di “cestino dei rifiuti” psichiatrico in cui inquadrare e relegare confusione o superficialità diagnostica.
In proposito il temine “borderline” fu utilizzato per la prima volta da V.W. Eisenstein, nel 1949, ma le manifestazioni cliniche non corrispondenti né all’organizzazione psicotica né a quella nevrotica convenzionalmente intese erano già risultate evidenti alla psichiatria di precedenti periodi.
Già Kraeplin nel 1883 parla di “forme attenuate di schizofrenia”, o Kahlbaum nel 1885 di “eboidofrenia”.
Anche lo stesso Sigmund Freud arriva a parlare nel 1924 di una “deformazione dell’Io” che si presenta come intermedia tra l’esplosione psicotica e il conflitto nevrotico. E la lista di riferimenti potrebbe continuare per pagine intere, sia trasversalmente (nello spazio), tra i diversi modelli e approcci psicoterapici, sia longitudinalmente (nel tempo), dalle teorizzazioni psicoanalitiche e post-freudiane in poi.
Ma cosa si intende convenzionalmente per “organizzazione limite”, o ”borderline”?
In genere per “struttura borderline” si intende una struttura di personalità instabile nell’immagine di sé, nel controllo della realtà, nell’umore e nel rapporto con gli altri.
Caratteristiche fondanti ne sono ancora l’impulsività, le continue oscillazioni fra idealizzazione e svalutazione di sé e degli altri, senso di vuoto, collera immotivata e intensa, comportamenti autolesivi, relazioni affettive instabili e intense, molteplicità rappresentativa di sé e carente funzione di regolazione delle emozioni dolorose (connessa al deficit metacognitivo) che appaiono come due aspetti di un patologico sviluppo insieme intrapsichico e relazionale.
Per quanto riguarda la dubbia dimensione eziopatogenetica del disturbo ”borderline” di personalità le teorie più recenti ne hanno attribuito lo sviluppo al concorrere di numerosi fattori di rischio tra cui inadeguate cure materne, carenze, incuria, abbandono, rifiuto, lutto, disfunzioni della comunicazione familiare, traumi psicologici, fattori sociali di rischio, tutti fattori che incidono inevitabilmente sulla salute mentale.
In particolare, il modello bio-psico-sociale sostiene che fattori biologici (legati all’aspetto ereditario del temperamento o a specifiche disfunzioni neuropsicologiche), fattori psicologici (legati ad esperienze traumatiche o a stili abnormi di accudimento e comunicazione all’interno della famiglia) e fattori sociali (legati all’anomia, cioè alla disgregazione dei valori tradizionali, tipica delle società occidentali contemporanee) intervengono in varia combinazione nell’eziopatogenesi del disturbo “borderline” di personalità. La complessità degli itinerari eziopatogenetici che, nel corso dello sviluppo, dovrebbero condurre al disturbo contribuisce a renderne sfumata la fisionomia, e tale fisionomia indefinita si riflette, d’altro canto, nell’elevata frequenza di comorbilità fra disturbo “borderline” di personalità e altri disturbi psichiatrici.
La principale teoria psicoanalitica, proposta da Kenberg, vede il nucleo del Disturbo Borderline di Personalità in un conflitto fra pulsioni libidiche ed aggressive, insorto in epoca pre-edipica (nei primi due anni di vita) e affrontato attraverso un meccanismo di difesa primitivo, la scissione (splitting). La scissione impedisce di confrontare fra loro, nella coscienza, le rappresentazioni positive e negative di sé e delle altre persone.
Altre teorie psicoanalitiche, come quella di Adler, sostengono che il disturbo centrale della personalità borderline è derivato non da un conflitto, ma da un deficit nella rappresentazione interna (introietto) della persona che fornisce cura, causato da gravi incapacità di tale persona (in genere la madre) a sintonizzarsi con i bisogni di sostegno e protezione del bambino. A causa del deficit, il paziente non ha la capacità di richiamare alla mente, nei momenti di stress emotivo, immagini tranquillizzanti: ne deriva una estrema vulnerabilità alle esperienze dolorose di paura, vergogna, solitudine e abbandono.
Ancora altre teorie psicoanalitiche, proposte da Fogancy e Maffei, sottolineano il ruolo del deficit nelle capacità metacognitive (capacità di distinguere apparenza e realtà, di pensare sul proprio pensiero, di formarsi una “teoria della mente”).
Esistono poi teorie psicoanalitiche, come quelle di Masterson, che sembrano porsi in una posizione di equilibrio fra le opposte tesi del conflitto e del deficit. Queste teorie postulano un deficit nell’accoglimento, da parte della madre, dei bisogni di autonomia ed individuazione (più che di cura e sostegno) che il bambino manifesta intorno ai due anni, ma anche un conseguente conflitto fra bisogni di autonomia e bisogni di protezione.
Il modello di Marsha Linehan del Disturbo Borderline di Personalità afferma, invece, che il nucleo del disturbo consiste in un grave deficit del sistema di regolazione delle emozioni. A causa di tale deficit, tutte le emozioni tendono a manifestarsi con eccessiva intensità, sia nell’esperienza soggettiva che nel comportamento e nella comunicazione. Si spiegano così, secondo il modello di Linehan, la rabbia immotivata ed intensa, le oscillazioni rapide dell’umore, l’intensità caotica delle relazioni affettive, la paura esagerata di fronte alla possibilità di essere abbandonati, e l’incapacità di controllare gli impulsi emotivi che può arrivare fino ai comportamenti autolesivi. Nel tentativo di ridurre l’esperienza penosamente intensa e caotica delle emozioni, la paziente borderline può far ricorso alle droghe, all’alcool o alle abbuffate di cibo, oppure può riuscire ad inibire totalmente, in alcuni momenti, l’intera esperienza delle emozioni, con la conseguenza di sperimentare inquietanti sensazioni di vuoto e di annichilimento.
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